INTERVISTA NUMERO 1: PAOLO STARVAGGI

Paolo ha in comune con me una serie di passioni, alle quali riesce a dedicarsi anche con molto talento: scrive spettacoli teatrali ispirati ai varietà del passato e ai grandi autori, con un pensiero in particolare al recentemente scomparso Dino Verde. Scopriamo insieme la grande sensibilità di Paolo dalle sue risposte alle mie "domandine facili facili", come diceva Silvio Gigli.

Tu vivi a Mediglia e lavori a Milano, quindi ti dividi tra la provincia e la metropoli. Quale dimensione preferisci?

«Non ho dubbi: la dimensione provinciale è quella che preferisco, per il valore che qui ancora si dà al rapporto umano, per il senso di appartenenza alla comunità che, almeno a Mediglia, ancora è abbastanza vivo. Mi fa star bene sapere che, uscendo di casa per andare a comprare il pane, incontrerò almeno tre/quattro persone che mi saluteranno e mi chiederanno come sto. E dire che il panettiere è nella stessa mia via! Nessun rimpianto per la grande città, dunque, anche perché in un quarto d’ora di macchina la metropoli è raggiungibile e con essa le piccole comodità che Milano offre (cinema, teatri, stadio, megastore…).» 

Fai tante cose, lavori all’Università ma la tua passione è il teatro, e il tuo mito è Dino Verde, giocare con le parole e con la musica riscrivendo le canzoni in chiave ironica. Da dove è nata questa passione, considerando la tua giovane età?

«La passione per il teatro è nata un po’ per caso: nel luglio ’93, durante un temporale, un fulmine si abbatté sull’antenna di casa mia e rimasi senza tv per un paio di settimane. Uscii di casa – avvenimento rarissimo per me, allora – e scoprii un gruppo di ragazzini che facevano teatro. Avevano bisogno di testi. A scuola passavo per secchione, o comunque per uno che sa scrivere. Mi chiesero dunque aiuto e io buttai giù un copione in due giorni. Lo spettacolo ebbe un enorme successo e quella fu la base per un’avventura che va avanti ancora adesso e che coinvolge decine di ragazzi. Per quanto riguarda le canzoni riscritte in chiave ironica, trovo sia un esercizio affascinante e impegnativo. È difficile scrivere un testo ironico su una melodia esistente: bisogna seguire la metrica, scrivere un testo che richiami per assonanza le parole della canzone originale e, soprattutto, riuscire fare dello spirito con buon gusto. Ecco perché queste parodie non sono affatto assimilabili ai cori da stadio, sebbene anche questi nascano appunto da canzoni note. Anche questa è un passione che ha radici “antiche”: nella prima metà degli anni ’80, guardavo con stupore le parodie del Quartetto Cetra su Antenna 3 Lombardia. Cercando le radici di tale forma di spettacolo, scopersi i meravigliosi “centoni” di “Studio Uno” prima e di “Biblioteca di Studio Uno” poi. Andai subito a vedere chi fosse l’autore di tali capolavori “leggeri”. Era Dino Verde, del quale poi mi divertii ad analizzare i testi, i giochi e i rimandi negli spettacoli con Alighiero Noschese, suo grande amico, scritti in coppia con Amurri. Proprio nel vari “Scanzonatissimo”, “Doppia coppia”, “Ma che sera”, la parodia musicata raggiungeva il livello di satira, mai volgare, anzi ricercata, quasi poetica. Questo era Dino Verde, un poeta. Che la parodia musicale sia ancora una forma validissima di intrattenimento lo dimostra il buon successo – tutto locale, per carità – ottenuto da “E’ arrivato Robin Hood”, che ricalca in tutto e per tutto gli stilemi di quelle meravigliose parodie.»

Oltre a questa passione per i grandi autori, condividi con me quella per la radio e la tv del passato. Ti faccio la stessa domanda, dal momento che io, per motivi anagrafici, ero un telespettatore-ascoltatore, e tu no…

«La passione per la radio e la tv di un tempo è nata assieme al mio interesse per la radio e la tv in generale. Anche in altri settori (cinema, gastronomia, stampa) coltivo da sempre l’amore per la riscoperta delle origini. Già da piccolo non mi perdevo una puntata dei vari "Dadaumpa". "Videocomic", "Marisa La Nuit", tutti programmi che riproponevano vecchi spezzoni. Poi la curiosità si è trasformata in studio, sia pure da autodidatta: l’apprendimento delle tecniche e la conoscenza di generi televisivi, personaggi, registi ed autori mi hanno appassionato sempre di più. Questo bagaglio di conoscenze, non straordinario ma abbastanza consistente, mi aiuta tra l’altro a giudicare la tv di oggi partendo da un termine di paragone. Mi rendo conto che la maggioranza dei telespettatori, specie quelli più giovani, non ha questo termine e trova spesso strepitosi prodotti in realtà abbastanza mediocri.»

Che cosa rimproveri ai televisivi di oggi, intesi come autori, registi, conduttori, ma anche produttori e funzionari?

«Agli autori non rimprovero nulla, per il semplice fatto che… non ci sono! Marchesi, Terzoli, Amurri, Verde, Scarnicci, Tarabusi, Paolini, Silvestri e via citando, sono solo un pallido ricordo, oggi come oggi. Non è nostalgia per il tempo che fu, ma rammarico per un modo di lavorare diverso, per non dire peggiore. Nei titoli di testa dei programmi odierni ci sono sì delle firme, ma il compito di questi signori è prevalentemente quello di "scalettare", ossia di fare la scaletta, senza occuparsi dello specifico numero, che non è mai scritto dettagliatamente ma sommariamente imbastito su un canovaccio. All'insegna di questa sciatteria nascono poi i contenitori pieni di gente che canta in coro e improvvisa battute estemporanee, come fossero ad una sagra paesana o, peggio ancora, ad una festa in un locale vip. Questo non è varietà televisivo, il pubblico meriterebbe maggiore rispetto. Ai registi rimprovero l’anonimato: sfido qualsiasi spettatore a distinguere una regia di Duccio Forzano da una di Stefano Vicario (sempre ammesso che il pubblico conosca questi nomi). Falqui, Trapani o Macchi li riconoscevi, ognuno aveva un suo tocco. Oggi il regista rischia di essere poco più di un “controllo camere”, schiacciato dal protagonismo di chi sta davanti alle telecamere. I conduttori, appunto. Ce ne sono, di bravi, senza dubbio. Il problema è abbonda la marmaglia, i “poliedrici al contrario”, quelli che in egual misura non sanno né recitare, né cantare, né ballare, né condurre. Eppure fanno ascolto, magari vivendo di rendita perché reduci da un reality. Tra vent’anni, però, difficilmente vedremo trasmissioni antologiche contenenti spezzoni dalle “lezioni di comportamento” di Costantino e Daniele. Oppure sì? A produttori e funzionari chiederei di puntare di più su idee originali di autori nostrani e di affidarsi un po’ meno a “format internazionali collaudati”. Saranno anche macchine collaudate, d’accordo, ma molte si ribaltano in parcheggio.»

 La radio sta un po’tornando al passato, riassaporando il gusto dell’ “apri il microfono e fa’un po’quello che vuoi”, sempre comunque con una regia dietro. Che cosa può significare questo,  che la radio è più intelligente della tv?

«La radio sta vivendo un momento di rilancio. Il successo di programmi come "Il ruggito del coniglio", "Viva Radio 2" o "Deejay chiama Italia" nasce dalla voglia di fare una radio che non scimmiotti la tv e che sia realizzata da bravi professionisti, capaci di "fare la radio" e di intrattenere con intelligenza. La radio che ha successo in questo momento è molto meno improvvisata di quanto appaia (ci sono copioni scritti da fior di autori, specie nel programma di Baldini e Fiorello). Gli inserzionisti poi hanno capito che il pubblico radiofonico è amplissimo, tanto quanto quello della tv. Hanno solo "prime time" differenti. Da questo nuovo interesse nasce l'esigenza di fare programmi di qualità, che non siano le classiche "tre ore insieme al deejay" in voga nelle prime radio private, anche a livello di network nazionali.»

La scomparsa di Giovanni Paolo II ci ha toccato un po’ tutti. Questo Papa ha riavvicinato molti alla religione, e comunque era stimato anche dagli atei o da chi avesse un altro credo. Tu sei molto impegnato anche sul fronte religioso; che cosa significa secondo te la religiosità? Come si può viverla in un mondo effimero come quello di oggi?

«Religiosità significa allargare il concetto di religione (intesa non come elenco di dogmi da rispettare, bensì come stile di vita da seguire) dal profondo del tuo animo al microcosmo che ti circonda, sia esso una grande città o un piccolo paese. L’attenzione al prossimo, la corresponsabilità dei problemi in seno alla comunità, certo, ma anche lo stupirsi ancora del sorriso di un bambino o dell’alito di vento di una giornata afosa. In particolare, io vivo questa esperienza con i più giovani, anche attraverso il teatro: è l’esempio che conta (e Giovanni Paolo II ce lo ha insegnato da subito), non il mettersi a predicare. Per chi è cristiano, infatti, religione significa in primo luogo l’incontro con una Persona. Ecco, i ragazzi entrano a teatro da noi, vedono ciò che facciamo e dicono: toh, ma allora c’è qualcuno che è qui per me… Vivere questo tipo di attenzione in un mondo effimero come quello di oggi è, secondo me, affascinante e difficile. Affascinante perché sei come un fulmine a ciel sereno per i maestri dell’effimero, terrorizzati all’idea che la gente faccia pensieri profondi. Difficile perché sei obbligato a confrontarti con questo mondo, senza fuggirlo o rifiutarlo a priori, visto che siamo chiamati a vivere la realtà in cui siamo inseriti.»

Ultima cosa: convinci Pippo Baudo (fa’ finta che sia io, “Eccomi qua! Eccomi qua!”) a venire a vedere il tuo spettacolo “E’arrivato Robin Hood”.

«Buongiorno, avvocato! Lei nel ’65 faceva i caroselli Simmenthal con Alberto Rabagliati e Gisella Sofio. Ah, mi presento: sono Paolo Starvaggi, ho quasi 28 anni e ho scritto uno spettacolo teatrale sullo stile di “Biblioteca di Studio Uno”. Non è una copiatura, né un plagio. È un omaggio, ai Cetra e a Dino Verde. Lo sto portando in scena con la mia compagnia, questo è il depliant. La aspetto a teatro! Naturalmente, sabato sera alle 21! »

Un applauso da me e da Pippo Caruso…cioè, no… grazie Paolo per aver risposto alle mie domande.

 

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